M. Mariotto un anno dopo

MICHELA MARIOTTO

UN ANNO DI BLOG

 

“Bambini transessuali, transgender, con genere creativo/indipendente/atipico/non normativo/fluido etc. tante sono le etichette che vengono utilizzate per descrivere quelle persone che vivono il proprio genere non rispondendo completamente alle aspettative sociali, che a volte si ha la sensazione di perdersi. Parlare di bambini trans*, un termine ombrello che utilizzerò qui per includere tutti i bambini con varianza di genere, non è affatto una cosa semplice perché implica necessariamente un posizionamento teorico dell’interlocutore rispetto ai significati che attribuiamo al genere e al sesso e perché le discipline implicate sono molte, non sempre concordanti. Inoltre, quando si parla di genere, non si ha sempre ben chiaro cosa realmente esso significhi. Si tende a confonderlo con il sesso, o ancora più probabilmente, con l’orientamento sessuale che invece descrivono cose diverse. Se il sesso si riferisce alle differenze biologiche tra maschi e femmine, l’orientamento sessuale indica verso chi sentiamo l’attrazione affettiva e/o sessuale. L’identità di genere è invece un processo intimo, con cui una persona, sin dai primissimi anni di vita, definisce il proprio sentirsi maschio, femmina o altro rispetto a dei modelli sociali di riferimento, che variano a seconda del contesto culturale e delle esperienze individuali. Questi modelli si fondano su delle regole e delle norme che possono essere esplicite o implicite e che comportano un grande condizionamento dei nostri comportamenti, sin dai primissimi anni di vita. Alcuni studi hanno rivelato che il modo in cui i genitori interagiscono – attraverso la voce, il gioco e la cura – con i propri bambini sin dai primissimi giorni di vita, è fortemente condizionato dal loro sesso. Se questi comportamenti sono compiuti dai genitori senza esserne pienamente coscienti, ci sono poi tutta una serie di norme sociali a cui si fa riferimento in maniera consapevole affinché i propri figli si costituiscano, ancor prima di nascere, come maschi o femmine. Pensiamo solo alla scelta che si fa dell’abbigliamento, dei giocattoli o dell’arredamento della cameretta, per continuare poi con la lista delle attività sportive plausibili, dei libri, dei film e persino delle amicizie. Un grande sforzo compiuto congiuntamente dalle istituzioni sociali, in primo luogo dalla famiglia, nell’interesse del bambino affinché questo dimostri di corrispondere in tutto e per tutto all’ideale di mascolinità o femminilità previsto in una determinata società. Ma cosa succede quindi quando, un bambino o una bambina, già dai primi anni di vita rivela, attraverso il suo comportamento e le proprie scelte, di preferire quei giochi, quei vestiti o quei comportamenti che generalmente si attribuiscono al genere opposto a quello di appartenenza? E cosa si può risponder poi, se questo bambino o bambina, talvolta appena acquisita la capacità di comunicare, esprime ai propri familiari di percepirsi come appartenente al genere opposto rispetto a quello indicato dal sesso biologico? E, ancora più disarmante, se dovesse addirittura dichiarare di non sentirsi né maschio né femmina o a volte maschio e a volte femmina? L’esistenza delle persone trans* e la rottura delle norme sociali riferite al genere che ne deriva rappresentano una sfida importante al sistema binario su cui è strutturata l’attuale società occidentale, poiché mettono in discussione non solo la rigida divisione dei generi, dicotomica, complementare e gerarchica, ma anche la loro presunta naturalità. Negli ultimi anni, in alcuni paesi tra cui Canada, Stati Uniti, Spagna e Olanda, si è parlato molto (anche se, a mio avviso, non sempre in maniera corretta) dei bambini trans* e delle loro famiglie. Le loro vivenze, e le loro istanze, hanno raggiunto non solo gli ambiti accademici riservati generalmente a pochi specialisti dedicati all’argomento ma, attraverso i blog, i social network, i talk show e i documentari, sono entrate nelle case della gente comune rivelando, oltre alle difficoltà incontrate, anche le gioie conosciute e soprattutto la normalità delle loro vite. Da un punto di vista sociologico, si tratta di un fenomeno del tutto nuovo. La novità, sia ben chiaro, non sta nel fatto che la varianza di genere sia un prodotto esclusivo della società di oggi (sono stati spesi fiumi di inchiostro per descrive la presenza di espressioni di genere non binarie nella storia, nella letteratura e in società diverse da quella occidentale). Quello che contraddistingue i bambini trans* di oggi è che questi sono accompagnati nella loro crescita dalla prima generazione di genitori che si è dimostrata aperta all’ascolto delle esigenze dei propri figli, disposta a sostenerli e accompagnarli nelle loro scelte e, cosa ancora più importante, a farlo in modo pubblico. Questo accompagnamento da parte delle figure genitoriali è tutt’altro che una passeggiata. Il bambino o la bambina trans*, se ancora serve ricordarlo, è una persona che chiede semplicemente di esprimere se stesso/a nella maniera da lui/lei ritenuta più indicata, quella che lo/a fa stare meglio. Come tutti i bimbi del resto. Non sono loro a essere difficili. Una delle fatiche più grandi che i genitori si trovano ad affrontare, una volta accettata la situazione, sta nel dover continuamente rendere conto dei comportamenti del proprio figlio/a e ancor più delle proprie scelte come genitore (in particolare la madre!). Anche le relazioni con le istituzioni non sono certo semplici, giacché spesso le persone con cui questi bambini e i loro genitori interagiscono quotidianamente (pensiamo per esempio alla scuola, alle attività sportive. etc.) non sono formate per accogliere la diversità di genere e non riescono pertanto a offrire quel minimo di attenzione che basterebbe per rendere più agevole e più sicura l’espressione di genere non normativa in contesti pubblici . Dalle interviste ai genitori di minori trans*, effettuate per la mia ricerca, emerge sempre e con particolare emozione, il sollievo provato quando si è avuto il primo contatto con l’associazione locale di genitori di minori trans* o con professionisti che avevano dimostrato di privilegiare un approccio psico-sociale a quello bio-medico. Il poter condividere la propria esperienza con persone che hanno vissuto la stessa situazione, o che dimostrano di non considerare la vivenza dei propri figli come un’anomalia rappresenta per questi genitori un grande conforto e un sostengo importante. L’incontro con dei referenti positivi, quali possono essere le associazioni dei genitori o questo tipo di professionisti, offre a mio avviso un duplice beneficio: se da un lato favorisce il sostegno morale e pratico in una situazione di forte bisogno, dall’altro mette a disposizione quegli strumenti interpretativi che permettono di pensarsi e raccontarsi seguendo criteri diversi da quelli offerti dal discorso che potremmo definire normativo. Per questo non ho potuto fare a meno di entusiasmarmi quando circa un anno fa, scoprì che Camilla aveva creato un blog, Mio Figlio in Rosa. L’obbiettivo, dichiarava, era quello di entrare in contatto con altri genitori di bambini trans* in modo da poter di condividere con loro la propria esperienza, alleggerire quella sensazione di essere gli unici in Italia ad avere un figlio/a trans* e diffonde le informazioni utili non facilmente reperibili. Allora, Camilla non poteva ancora sapere che sarebbe diventata un punto di riferimento importante per molte famiglie italiane come la sua e che la sua pagina blog rappresentava solo l’inizio di una grande avventura.”

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